Dadapolis

 

“Ogni esercizio dell’occhio su Napoli è come giocare con un caleidoscopio. Forme e significati si compongono e disfano di continuo, governati dal caso, retti da un principio di indeterminazione piuttosto che di casualità. Basta un impercettibile spostamento del magico strumento perché l’immagine muti e trapassando in un’altra si intessa l’arabesco, uno dei simboli dell’infinito, come il labirinto”.
Dadapolis: caleidoscopio napoletano

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Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.

Cosa m’è avvenuto? pensò. Non era un sogno. La sua camera, una stanzetta di giuste proporzioni, soltanto un po’ piccola, se ne stava tranquilla fra le quattro ben note pareti. Sulla tavola, un campionario disfatto di tessuti – Samsa era commesso viaggiatore e sopra, appeso alla parete, un ritratto, ritagliato da lui – non era molto – da una rivista illustrata e messo dentro una bella cornice dorata: raffigurava una donna seduta, ma ben dritta sul busto, con un berretto e un boa di pelliccia; essa levava incontro a chi guardava un pesante manicotto, in cui scompariva tutto l’avambraccio. Lo sguardo di Gregorio si rivolse allora verso la finestra, e il cielo fosco (si sentivano